Estate 2008, New York (
qui qualche accenno a questo viaggio). Ero nella Grande Mela, dunque, anzi nella poco glamorous Staten Island, per ricerche letterarie (su
Meucci e Garibaldi, che poi non hanno trovato posto nel
romanzo in questione). Al termine del periodo di lavoro, monacale e anche un po' triste, una cara amica americana mi convinse a trasferirmi a Manhattan per una settimana scarsa, perlomeno, di meritato svago. Avventure che qui non riferisco mi portarono ad alloggiare nel quartiere Tribeca, il glamour del glamour, in un super-palazzo di super-appartamenti affacciati sull'Hudson River. Nel super-palazzo a fianco, mi si diceva, abitava Meryl Streep... e un bel pomeriggio, rientrando a casa, mi ritrovai
in ascensore faccia a faccia con James Gandolfini.
Voglio dire, io e lui e nessun altro. Vari episodi dei
Soprano (serie tv di culto, anni fa, presso gli sceneggiatori italiani frustrati e amareggiati dal duopolio televisivo, che impediva e continua a impedire nella fiction la realizzazione di ogni cosa che non sia ripetizione stanca e piatta del già visto) mi son passati davanti agli occhi della mente in un paio di secondi. Anzi, no. Perché io, Galdolfini, non l'ho mica riconosciuto subito. Le rotelle del mio povero cervello, abituate in quei giorni a tutt'altri stimoli e visioni, hanno macinato la vaga percezione di una faccia e una corporatura in qualche modo note, ma associate a qualcosa di assai lontano, di assai fuori contesto. Poiché, credetemi, tra il sentir parlare dei
Soprano in una pausa di un brain-storming e vederne un mezzo episodio sullo schermo, e il ritrovarsi poi con il protagonista in ascensore a Tribeca, c'è una distanza abissale.